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Potere e nonviolenza. L’esperienza nonviolenta di Gesù

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 Quest’anno ricorre il 50°anniversario della nascita del Movimento Nonviolento in Italia e i Gruppi di Lettura popolare della Bibbia si sono incontrati proprio per offrire il loro contributo attraverso la ricerca e la condivisione di riflessioni bibliche illuminate da concrete testimonianze di vita nei contesti di alcuni conflitti. Potere e nonviolenza. L’esperienza nonviolenta di Gesù: memoria e attualità  è il tema che dal 17 agosto al 24 agosto abbiamo trattato durante la settimana biblica nazionale a Galatone, dove partecipanti provenienti da tutta la penisola si sono incontrati per rintracciare, insieme a Maria Soave Buscemi missionaria laica,alla pastora luterana Eliane Neuenfeldt e a f. Francesco Zecca, le strategie di resistenza nonviolenta e di costruzione del Regno di Dio elaborate dai primi cristiani della comunità di Marco,che si trovarono ad affrontare il problema del rapporto con i poteri temporali forti alla luce della Risurrezione del Cristo. Ospiti del Gruppo di Lettura popolare della Bibbia  e dell’associazione Egerthe! Galatina che ha coordinato tutta l’organizzazione della settimana, circa 90 persone, provenienti da ogni parte d’Italia (Napoli,Campobasso,Padova,Pesaro,Pisa,Bologna,Modena,Verona,Ferrara,Trento,Milano) e da tutta la Puglia: molti di loro giovani che stanno compiendo il cammino vocazionale all’interno della famiglia francescana salentina. 

Il conflitto come possibilità 

Cosa ci portano alla mente, quali parole evocano questi due termini? Non si tratta di dare una definizione, bensì di un tentativo di de-costruire i due termini,cioè smontarli, metterli in crisi, contraddirli, per mettere in evidenza le forme di potere che stanno sotto a certi discorsi fatti passare per veri. Ci siamo resi conto,dopo un brain storming, che la violenza è legata sempre ad atteggiamenti, situazioni, realtà negative; il conflitto invece è legato a dinamiche e situazioni che talvolta sono positive. Laddove sempre la violenza si caratterizza come impedimento, il conflitto invece nella crisi apre dei varchi di possibilità nuove: gestire ad esempio la rabbia può diventare occasione di confronto non violento e di dialogo. Il conflitto può diventare occasione per la trasformazione di noi stessi e della società. Nel momento di condivisione abbiamo messo a fuoco il messaggio veicolato da una stampa di una maglietta che rappresenta il telaio gandhiano simbolo della ahimsa, della non violenza, del satyâgraha (forza della Verità:satya:verità;agraha:affermare fortemente). Grazie a Gandhi, il telaio diventò uno strumento di lotta politica, poiché proprio  da questo fece partire il boicottaggio dei tessuti inglesi in modo non violento. Per Gandhi la filatura purificava il cuore: non è possibile essere non violenti se non si rivedono i rapporti e le relazioni interpersonali, se non si passa da un atteggiamento di semplice rifiuto della violenza ad un atteggiamento che mira a costruire la relazione. La relazione che non si costruisce a rete (immagine che rievoca la cattura di pesci che vi rimangono impigliati) ma nel modo di un tessuto:un lavoro paziente di costruzione di una realtà in cui diverse trame di vita si integrano e si incontrano e si incrociano e si sostengono a vicenda. La violenza è solo la punta dell’iceberg:sotto la violenza tra le persone, troviamo le strutture violente e le culture violente.  In particolare dobbiamo ricordarci che è la violenza culturale quella deputata a legittimare tutte le forme di violenza diretta: è quando permetto che passi l’idea che uno è inferiore a me, che apro la strada ad ogni tipo di violenza, ma ognuno di noi può fare qualcosa per incidere su questa forma di violenza, cambiando le teste. L’esperienza delle CdB soprattutto in America Latina ha dimostrato praticamente che esiste anche una violenza strutturale esercitata dalla Chiesa e che è possibile lottare contro di essa, come fece Gesù. La violenza esercitata dalla religione diventa una violenza sacralizzata: le persone sono inserite in strutture gerarchiche come tasselli rigidamente ordinati, che esercitano violenza sui piccoli, i non normodotati, le donne,gli omosessuali ecc. Le piccole organizzazioni economiche (gruppi Gas, commercio equo e solidale ecc.) sono tentativi riusciti di incidere sulle strutture economiche violente, così come le CdB sono tentativi di incidere sulla struttura e di reagire alla violenza esistente nelle strutture della Chiesa: sono questi esempi di speranza dinamica.  

Rimanere nel conflitto per democratizzare la Parola

Il conflitto èla dimensione normale dei testi biblici: ogni pagina della Bibbia è attraversata da conflitti. Se rifiutiamo questa dimensione, inevitabilmente finiamo con l’assolutizzare un’interpretazione rispetto alle altre e trasformando il testo in uno strumento di violenza apriremo la strada al fondamentalismo, anzi ai fondamentalismi: leggere piano il testo, invece in una dimensione comunitaria e poi cercare di raccontarlo con le nostre parole per innescare un processo ermeneutico, cioè per ricostruirlo insieme, può diventare il primo passo per democratizzare la Parola, cioè per aprire la strada ai dubbi, ai sospetti, alle domande facendo emergere la vita. Dalla lettura del Capitolo 16°del Vangelo di Marco  Maria Soave ci ha aiutato a riconoscere l’esistenza di più gruppi intorno a Gesù,  mettendo a fuoco il diverso atteggiamento delle donne e dei discepoli al sepolcro (cfr.Mc 16,1-8 e 9-20): il gruppo delle donne con Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, i fratelli di Gesù intorno a Giacomo, il gruppo dei discepoli, la “moltitudine”. Non esisteva, quindi, una sola chiesa, ma più chiese particolari, ciascuna delle quali ha contribuito, in tempi diversi e con preoccupazioni pastorali diverse, alla composizione dei vangeli, non nascondendo le differenze che furono vissute anche con grandi conflittualità. Il pluralismo è nel codice genetico dei cristiani: fin dall’inizio la predicazione di Gesù ha mosso gruppi diversi, come il gruppo dei discepoli, il gruppo dei fratelli di Gesù, il gruppo delle donne, il gruppo della moltitudine, che è il più numeroso ed è quello che compare addirittura 138 volte nei vangeli.  

 Dialogare con i testi biblici

Il terzo giorno di incontri si apre all’insegna di una consapevolezza ormai raggiunta: è lecita e corretta la nostra pretesa di dialogare con i testi biblici, poiché a differenza dei “testi sacri’’ di altre religioni la Bibbia non è un dettato della divinità, ma la storia della relazione tra l’uomo e Dio, un intreccio di parole umane e divine che attendono di essere interpretate per distinguere l’oro, il “Logos”dalla sabbia che lo contiene. Fondamentalismo è l’arroganza di pensare che la verità sia univoca per cui l’altro va eliminato. Dunque non una lettura lineare ma un approccio curioso fatto di domande, sospetti, dubbi. Il confronto tra due passi biblici (II Samuele 24,1 e I Cronache 21,1) ci mostra che la “Parola”contenuta nella Bibbia può essere compresa solo se contestualizzata storicamente. Nei due testi lo stesso fatto storico (il censimento) viene presentato nel primo come opera di Dio, nel secondo come opera di Satana.   Il nostro cammino è  scoprire la Parola di Dio, riguardare la nostra immagine di Dio, perché per essere cristiani non basta credere in Lui: bisogna crederci alla maniera di Gesù(cfr. Mt11,25). Quando ci facciamo piccoli tra i piccoli ci abbreviamo (cfr. Giustino:"il Logos si èabbreviato") e la Sapienza di Dio si rivela nel conflitto della storia, dove sembrano dominare i potenti: chi sta dalla parte dei piccoli si accorge che il progetto di Dio si mescola nella storia, ma è un filo colorato e molto evidente. 

Agire per rendere efficace la nonviolenza

La non violenza vissuta come passività, come semplice non- agire- il- male finisce col fare il gioco della violenza, finisce col farci cadere nel complotto organizzato dai potenti a danno dei piccoli. Si rende quindi necessario vivere in maniera nonviolenta, si rende cioè necessario un agire, un’attività: occorre una strategia per rendere la non violenza una forza attiva, efficace e capace di costruire. Anche la rabbia può essere energia utile per costruire. Gesù imparò da quello che patì, dal fare propria la sofferenza della gente, dall’incarnazione (Eb. 5,8). Nell’episodio di Mc 2,1-12 scoperchiare il tetto è stata un’azione violenta o non violenta a seconda della  prospettiva da cui ci mettiamo per guardare: per gli scribi sicuramente si è trattato di un’azione violenta, perché ha scardinato l’ordine costituito,per cui è evidente che le nostre strategie nonviolente  a qualcuno potranno non andare  bene. 

Decostruire il testo per attualizzare la Parola.

De-costruire un testo,smontarlo non è affatto distruggerlo, ma disfare per re-inventare, mossi dalla volontà di ascolto ma anche da una volontà di sospetto. Il circolo ermeneutico parte dalla vita e ritorna alla vita passando dal testo, quindi è quella giusta se fa emergere la vita.  Per Elaine, pastora luterana, “il testo deve essere tradotto con le parole della gente del mercato, perché tutti possano capirlo”(M. Lutero): solo se  gli ultimi capiscono, allora il testo acquista un  senso. Le teologie spesso sono state usate come strumento di violenza: come si può fare a convincere la gente a fare qualcosa che non gli piace? La si può convincere che l’ha ordinato Dio. Ma che pensano, ad esempio, i poveri realmente delle manovre finanziarie? (cfr. II Sam. 24,1 ;I Cronache 21,1). Nel lavoro di gruppo che ci ha impegnato in questa giornata abbiamo preso in considerazione due testi paralleli, Neemia 13,23-31 e Isaia 65,17-25 che narrano il medesimo episodio, vale a dire l’episodio del ritorno dall’esilio. Quando i gruppi alti e medi del popolo di Israele vengono deportati verso Babilonia nella terra di Giuda viene abbandonata a se stessa la stragrande maggioranza dei poveri: Gerusalemme è rasa al suolo e il popolo va incontro ad una gravissima crisi identitaria perché il tempio è stato distrutto,non ci sono più teologie ufficiali, le elìte deportate e la popolazione giudea ormai senza palazzo passa sotto un amministratore babilonese. Quando con l’editto di Ciro comincia progressivamente il rientro in patria dei deportati, si pone il problema della ricostruzione e nei due testi esaminati ci sono due progetti che partono da prospettive diverse:

1. quali caratteristiche possiamo evidenziare in ogni testo di progetto di ricostruzione di identità?
2. questi due progetti come aiutano la mia traiettoria comunitaria a seconda di come i miei piedi camminano nelle strategie nonviolenza? 

Stiamo attenti a non dare risposte semplicistiche, è questo l’avvertimento di Maria Soave, quando ci apprestiamo a riunirci  nei gruppi di lavoro e di confronto sulla Parola per rispondere alle due domande sopra riportate. Uno dei due testi sembra violento,  invece è anche esso ispirato, è infatti inserito nella liturgia. Come possiamo confrontarci con testi apparentemente violenti? Rimanendo nel conflitto e ascoltando le ragioni di tutti. Innanzitutto, entrambi sono testi di ricostruzione post-esilica. In Neemia c’è una realtà di conflitto in cui si evidenzia anche una resistenza: alcuni sacerdoti corrotti sono stati allontanati e questo mostra che c’è una lotta nella casta sacerdotale in merito alla ricostruzione, poiché con le pietre non si ricostruiscono solo palazzi e tempio, ma anche le case, dove abita la gente, il popolo. E tra il popolo ci sono anche le donne pagane e straniere che non vogliono andarsene via e che per Neemia devono essere scacciate.  La ricostruzione è legittima, ma la pratica proposta dal sacerdote è violenta: afferma un’idea di purezza etnica, linguistica, religiosa, che mira a realizzare una casa della legge  in cui non c’è posto per la donna, per il diversamente abile ecc….Ci sono cose che la vita, la natura ci insegna: non si può piantare lattuga sotto i pomodori oppure che un terreno a monocoltura presto o tardi diventerà un deserto, tuttavia che due cose non si mescolano non significa che necessariamente sono una buona e l’altra cattiva. È latente invece in noi la tendenza a considerare sporco, brutto e cattivo quello che non conosciamo: il concetto di purezza è un non-mescolare che non aiuta la società, ma produce esclusione e violenza. Isaia presenta invece il modello di Ruth:anche questa è una proposta di ri-costruzione, ma partendo dal basso, dal popolo. La storia di Ruth si contrappone a Neemia: non con il linguaggio forbito del sacerdote Neemia, ma col linguaggio del popolo,  Ruth dice ai signori della legge che il loro progetto non funziona, il popolo muore di fame perché la legge della spigolatura non solo non consente ai poveri di mangiare, ma addirittura li stritola. Tutte le volte che le prime comunità  cristiane cercano nell’AT un progetto di ‘’ricostruzione’’ ricorrono ad Isaia e a Ruth, mai a Neemia, perché il problema non è il problema del sacerdote ma il problema del lebbroso, del paralitico, del povero, dell’emarginato, dell’emorroissa. Sia Ruth che Neemia sono Parola di Dio: una Parola attraversata dal conflitto che attende una soluzione, che possiamo trovare solo a patto di guardare a come queste due proposte influenzano il luogo dove i nostri piedi si poggiano.

La proposta di Isaia èutopia: u-topos,U come wow,un’esclamazione di meraviglia ‘’è possibile!’’. L’uguaglianza si da nel guardare politicamente le disuguaglianze che vanno corrette: filiere corte, decrescita, ecc. Utopia non è a-topia,ma è “ciòche è adesso, subito”: perché è  urgente è anche possibile. La vita è l’ultima e la prima parola. 

 La strategia non violenta di Gesùdi Nazareth

Anche Gesù compie un cammino di conversione: quando si dice Gesù si intende Gesù Cristo insieme alla comunità che si legge con Gesù. Nel testo di Mc 2,1-11 la moltitudine dei poveri è turbolenta,è ai confini,anzi fuori dalle mura, è senza personalità giuridica, preme. Ci hanno detto spesso che i poveri sono in lotta tra loro, sentiamo parlare spesso di guerra tra poveri: ma a chi giova dire questo? Anche le nostre comunità sono attraversate dal conflitto, che facciamo allora? Rimaniamo e riformiamo oppure andiamo via? La risposta può essere in Mc 2,1-12, nel passo del paralitico ‘’alzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua’’: senza per questo disconoscere la casa di Pietro, c’è un’altra casa intorno all’esperienza della grazia e questa è una consapevolezza che ci viene portata in dono proprio dalla Chiesa luterana. Ecco il senso della barella: la barella è la memoria dell’essere paralitici,è ricordarci che possiamo sempre tornare ad essere paralitici. Ci si porta appresso la barella per ricordarci cosa ci paralizza. Qual è la prima necessitàdel paralitico? Alzarsi, evidentemente. Facciamo attenzione a come Gesù rimane nel conflitto:se avesse detto “Alzati e cammina”nessuno si sarebbe ribellato, poiché quello sarebbe stato il modo piùsemplice di risolvere il conflitto.  

Gesù sceglie la strada più complessa: evidentemente le Chiese/comunità chiedevano una risposta diversa. La costruzione della comunità di Marco avviene mettendo insieme piano piano tanti tasselli:per fare chiesa stavano però mancando i poveri, esclusi dalle teologie del tempo. Ma a questo punto le comunità si chiedono:quanto erano importanti i poveri nel messaggio evangelico? Per la comunità di Marco questa gente ci deve stare per forza nel progetto del regno di Dio ed ecco che il paralitico scoperchia la casa. Alla fine tutti lodano Dio: tutti si sono formati alla scuola del paralitico, a cominciare da Gesùstesso.

La strategia non violenta di Gesùsi manifesta quindi:

 1.     nel mettere il dito nella piaga, provocare il conflitto per mettere sotto i riflettori la “struttura di peccato” che produce la malattia, qual è la teologia escludente;    

 2.     nell’assertività: per stare nel conflitto in maniera non violenta occorre prendere delle decisioni pratiche coraggiose, che inventano altri schemi:“Gesù, vedendo la loro fede…’’. L’assertività è fondamentale per la non violenza: l’immagine degli accompagnatori che scoperchiato il tetto, calano il malato non è violenza, ma assertività.  Assertività è empowerment:dare potere, riconoscere che abbiamo potere, esserne consapevoli;  

3. nell’empatia:Gesù, nel suo Spirito, riconosce il pensiero degli scribi: significa che il loro pensiero non è estraneo a Gesù.  

Quella che chiamiamo pace talvolta è solo mantenere un conflitto (M.L.King)

Numerosi conflitti di natura violenta e guerre nel mondo hanno luogo in situazioni in cui si scontrano due o più gruppi composti da etnie e culture diverse. Ma anche sul piano individuale, le persone discutono costantemente e litigano quando si trovano ad esprimere diversi punti di vista, interessi, abitudini, valori o emozioni.  Ciò accade nella famiglia, sul posto di lavoro, nelle riunioni, nei rapporti di vicinato, per la strada e di solito sembra trovare il modo di gestire le differenze con altri, senza che ciò crei stress, rabbia, violenza, inquietudine e dolore. Ci sono diversi modi per affrontare le differenze tra persone. Come ci insegna Pat Patford, studiosa di nonviolenza che ha elaborato le sue teorie proprio partendo dal rapporto con le figlie, possiamo generalmente distinguere tra una via violenta e distruttiva ed una costruttiva e non violenta. La situazione di partenza, sia in una situazione distruttiva sia in una costruttiva, è  caratterizzata da (almeno) due diverse posizioni, che rappresentano diverse caratteristiche, comportamenti o punti di vista di due individui o di due gruppi di persone. Di per sé, questa situazione non rappresenta un problema. Queste due diverse posizioni procedono secondo uno schema basato su un modello Maggiore-Minore o modello M-m: ciascuna delle parti cerca di difendere le sue proprie caratteristiche o comportamenti come migliore dell’altra o delle altre: ciascuno si sforza di essere nel giusto, di dominare. Le conseguenze di questo atteggiamento sfociano in tre situazioni di violenza:m cerca ogni occasione per diventare M;   m cerca un altro m1 piùpiccolo di lui su cui sfogarsi; m scatena la violenza su se stesso.  Il modello M-m è alla base della violenza.  E’ la radice della violenza. Comportarsi secondo il modello M-m è così frequente, sembra  così normale, che la maggior parte delle persone pensa addirittura che questo comportamento appartenga all’istinto dell’uomo. Il bisogno di protezione e di autodifesa sono senza dubbio connaturati all’uomo, ma non necessariamente seguendo il modello M-m. Questa è olo una delle possibili strade per difendersi.
Un altro metodo per gestire la situazione di partenza di due diverse posizioni, è il modello dell’Equivalenza. Questo modello è alla base della nonviolenza:anch’esso risponde all’istinto di auto conservazione proprio dell’essere umano. Il modello in Equivalenza,che è la non violenza, ci permette inoltre di uscire dalla posizione-m, per difendere e proteggere noi stessi, ma non a spese degli altri, nécontro qualcuno, né attaccando, come accade nel modello M-m. Quindi quando la relazione si pone su un livello di equivalenza si dà allo spirito di conservazione la possibilitàdi affermarsi, ma senza aggressività.  

Il metodo costruttivo per gestire le differenze e i conflitti

Quando ci comportiamo secondo il modello Maggiore- minore, chiamiamo questa situazione "conflitto". Nel metodo M-m usiamo argomentazioni per cercare di avere ragione, di vincere: o cerchiamo di mostrare che il nostro punto di vista è migliore di quello dell’altro, per raggiungere la posizione M; se non ci riusciamo passiamo a screditare le opinioni dell’altro, per spingerlo a diventare m; oppure, se ancora questo non basta si passa addirittura a screditare l’Altro, per farlo sentire inferiore. L’aspetto dell’altro (il colore della pelle, il sesso, la religione ecc) diventano elementi negativi e vengono usati per svalutare il punto di vista dell’altro (sessismo,razzismo,fondamentalismo religioso…). Usare argomentazioni è superficiale: esse stimolano una crescita del conflitto, "soffiano"sul fuoco, per intenderci. Entrambe le parti usano qualsiasi mezzo a loro disposizione per rendere il proprio punto di vista piùforte,sminuire l’altro e prevaricarlo: usando questo metodo, non facciamo altro che ingigantire il conflitto ed esacerbarlo.  

Il modello in Equivalenza invece lavora con i fondamenti, non con argomentazioni. Come la parola suggerisce, sono i fattori che stanno sotto alle ragioni di entrambi i punti di vista: le motivazioni, i bisogni, gli interessi, gli obiettivi,i valori che ciascuno possiede. Queste ragioni si comprendono per mezzo di domande che chiedono "Perché". "Perché ho questo punto di vista? Perché l’altro/a ha il suo?". Esplorando le ragioni per mezzo del metodo in equivalenza, si ha l’opportunità di comprendere il conflitto in profondità: spesso le ragioni rimangono inespresse, potremmo non esserne consapevoli, in ogni caso, esse sono presenti e individuarle è essenziale.

 Risolvere un conflitto.  Il modello Maggiore –minore o quello di Equivalenza ci portano a gestire il disaccordo e il conflitto che ne scaturisce, in maniera completamente diversa.  Nel modello M-m esistono solo due possibilità: o sono io ad avere ragione oppure l’Altro e ogni soluzione proposta o raggiunta conduce alla stessa reazione: "hai visto? Avevo ragione io!"oppure "chi ha vinto alla fine?". Spesso però tale modello non porta a nessuna conclusione. Ogni volta ci difendiamo attaccando, mentre l’altra persona è spinta a difendersi, di nuovo attaccando e provocando e cosìvia. Il modello di equivalenza, invece, ci offre molte altre soluzioni, che nascono dal comprendere le ragioni di fondo di entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Mentre nel modello M-m è più importante il risultato, cioè che è fondamentale è trovare una soluzione, nel modello di equivalenza è più importante capire il processo attraverso il quale è possibile trovare una soluzione. Chi è coinvolto nel conflitto entra in un processo che rivela le ragioni A di entrambi, riconoscendole e rispettandole tanto quanto le proprie e procedendo poi per gradi verso la soluzione. Per poter gestire un conflitto, bisogna conoscersi, bisogna conoscere se stessi. Quando c’è un conflitto in atto, ci sono emozioni in atto,energia che si produce ed esplode, provocata dalla diversitàdi posizione: non violenta è la costruzione dell’equivalenza delle relazioni, in cui si cerca di capire perché uno  è così attaccato alla sua posizione.  La dimensione micro e la dimensione macro sono inseparabili: costruiamo il mondo in relazione a come costruiamo le nostre relazioni personali. Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace nel 1984   arcivescovo anglicano di Cittàdel Capo fino al 1996 e insieme testimone e protagonista del complicato e difficile percorso politico che ha permesso al Sud Africa di sconfiggere la dittatura e diventare una democrazia, costruendo un delicato processo di recupero di equilibri e di solidarietà sociale senza però dimenticare le violenze perpetrate dal regime segregazionista: un processo che si è realizzato grazie alla «Commissione per la verità e la riconciliazione»sudafricana. Tra il “modello Norimberga”che prospettava una serie di processi dei vincitori ai vinti ed il modello di un’amnistia generale indifferenziata, si fece strada l’idea di una terza via, da realizzare attraverso la creazione di una commissione che aveva il potere di concedere il perdono solo a chi confessasse i delitti per motivi politici commessi durante il periodo della dittatura.  Grazie ai racconti resi, fu possibile ricostruire i fatti e soprattutto avere un quadro delle gravi violazioni dei diritti umani avvenute in seguito alle lotte politiche contro il regime. Desmond Tutu  aiutò così a ripristinare la dignità umana e civile delle violenze, dimostrando così l’efficacia di una formula che oggi è un esempio:partecipazione democratica non è solo dire le cose che non vanno, ma occorre anche vedere cosa possiamo fare per cambiarle (guardare per esempio quali sono e come sono gestiti i meccanismi di potere all’interno dei partiti).

 Io sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza (Gv 10,10) 

 L’ultima giornata è quella in cui già ci si protende al futuro, alla partenza ma cercando di mettere in valigia le cose davvero importanti ricevute in dono durante questi giorni. Dopo aver aperto con un canto e la preghiera, Francesco ci invita a respirare, profondamente e lentamente, a concentrare l’attenzione sul respiro, su questa vita che fluisce in noi. È la vita lo Spirito, è lo Spirito la vita. Spirito e vita sono intimamente legati, anche nell’etimologia.  Ruah/Spirito, è femminile, perché in ebraico ruah  hayym (Gen. 6,17) significa utero di Dio, da cui viene il soffio della vita (in latino misericordia). Dalla radice uterina viene il soffio vitale che ci è stato dato per grazia, gratuitamente e che ogni giorno ci fa partecipare alla vita. Come dice anche la sociologa Pat Patford, non violento è chi diventa in grado di difendersi senza attaccare, senza aggredire. È importante entrare nell’imitazione di Cristo che imparò da ciòche patì: anche sbagliando. Gesù  ha imparato da una serie di incontri: nell’imitazione di Gesù non dimentichiamo che Gesù è il Cristo perché il Cristo è  Gesù.  Invitati dalla nostra compagna di viaggio, Maria Soave,ognuno di noi cerca di evidenziare delle strategie non violente nel Vangelo:

  •   “Eccomi,sono la serva del Signore”(Lc 1,38) Ascoltare parole di salvezza e ti salverai. L’annunciazione:Maria è rimasta incinta dall’orecchio,dice la tradizione orientale.

  • il mio fardello è leggero e il mio giogo è soave”(Mt 11,28-30). Soccorrersi a vicenda,decidere di prendere su di séil destino dei fratelli. Nelle prove ho visto che quando mi ha aiutato qualcuno,io ce l’ho fatta. Ci sono dei giusti che reggono il mondo, c’è qualcuno che lo sopporta, che porta il dolore del mondo perché non cada e quando quel qualcuno muore, ci devono essere altri gruppi che prendono il suo posto.

  • il regno di Dio è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti (…) ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra“(Mc 4,30-32). Dobbiamo imparare a superare il pensiero ellenista: il pensiero che ci porta a dividere e a separare, a gerarchizzare e opporre la creazione: buio-luce, giorno –notte: ma allora perché voglio il bene e faccio il male, si chiede Paolo quando incontra gli ellenisti nell’agorà di Atene…Quale è il contrario di uomo, se non è donna? Il pensiero ellenista gerarchizza gli enti, li organizza in contrari: giorno è meglio di notte, uomo è diverso e meglio di donna. Quando gerarchizziamo noi violentiamo e pensiamo che dire natura sia dire qualcosa di diverso da umanità:dominare è come mettere sotto i piedi, schiacciare. La strategia per il superamento della struttura gerarchica è personale e comunitaria: al posto dell’“o” aut,mettiamo l’”e”. Non c’è inferiore né superiore, ma c’è un’esperienza ciclica nella vita: un albero che nasce da un semino piccolo,sotto i cui rami tutti hanno spazio.

  •  “e subito i due tornarono a Gerusalemme”(Lc 24,35). Per creare relazione occorre la contemplazione: contempl –azione (don Tonino Bello),poiché rimaniamo vuoti se essenzializziamo solo la preghiera. La LPB ha una finalità: è fare esperienza di Dio in un’azione politica. La LPB è una lettura politica, esperienza spirituale per tornare a Gerusalemme, dove i potenti massacrano i corpi: non possiamo chiudere questi incontri dicendo che la politica ci fa schifo, perché Gesù è morto per un’azione politica. Siamo politici perchéabbiamo fatto esperienza di grazia, perché siamo stati amati e salvati gratis (la Chiesa luterana ci insegna questo con forza):l’azione del cristiano è profondamente spirituale ma anche profondamente politica.

  •  Marco cap. 15: il cristiano deve mostrare la faccia, come Giuseppe di Arimatea. Da che parte stiamo? Se la nostra fede non incide profondamente nelle nostre pratiche politiche allora non è degna di essere creduta. Giuseppe schioda il crocifisso dalla croce (J.Sobrino): la vita ha l’ultima parola sulla morte. ’’Se avete un granellino di fede farete cose anche più grandi delle mie’’. Fede è credere nel Dio che è in me che è uguale al Dio che è in tutti gli altri. È stato un miracolo quando abbiamo vinto il referendum sull’acqua.

  •  “Avete sentito che hanno detto occhio per occhio…ma io vi dico amate i vostri nemici”(Mt 5,43-45). A chi ti chiede il mantello dai anche la tunica. Quando Gesù ha dato il mantello? il giorno in cui Gesù sapeva di avere tutto il potere nelle sue mani si alzò da tavola e si tolse il mantello per mettere il grembiule (Gv 13). Gesù riprenderàil mantello, ma il Vangelo non dice mai che tolse il grembiule. Sulla Croce rimane solo il grembiule. Questa è una strategia non violenta: noi sappiamo in maniera assertiva cos’è importante: non è né il mantello né la tunica, ma solo il grembiule. La passione di Gesù è la morte di chi ha fatto una morte irredenta, di chi non sa cosa avverrà…di chi si sente abbandonato dal Padre. Noi la curva della vita non l’abbiamo fatta, ma ci crediamo perché altri l’hanno fatta prima di noi: i nostri antenati ci hanno preceduti e sono vissuti in Cristo e per Cristo, sono vissuti nell’impegno, nell’amore. Noi non siamo soli: noi siamo in loro e loro sono in noi.

Testimonianze dalla terra del Salento

La pizzica, danza di resistenza

Nel viaggio tra violenza e non violenza, febbre e conflitto ci immergiamo nel tarantismo.  "Questa è la terra di Puglia e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine, dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta…. "recita l’inizio della “Taranta’’, film documento del 1961 di Gianfranco Mingozzi con testo recitato da Salvatore Quasimodo,proiettato durante la condivisione serale. Nelle tarantate il vero protagonista è il corpo, non la mente. Tornare alle radici della danza vuol dire tornare all’immaginario simbolico di questa danza, immaginario simbolico che non si dà senza un tentativo di interpretazione dei simboli. Il ragno intesse intorno alla preda una ragnatela: è quella ragnatela la casa fragile della donna e per la donna. La donna nella danza è chiamata a scegliere, a diventare artefice del suo destino: liberarsi oppure no. È una danza di ribellione, in cui i passi della donna battono sulla terra per schiacciare la taranta, in cui la donna è chiamata a rivivere la sua condizione nel mezzo della ronda. Nella pizzica tarantata non ci sono passi corretti: è il corpo che esprime il suono del suo tamburo interno. In questa performance la donna vive una tensione, un conflitto di forte identificazione e nello stesso tempo distacco, nel lasciarsi andare e riprendersi, nell’“essere ragno”e, contemporaneamente con il movimento dei piedi simulando lo schiacciamento della bestia ed è da questo dualismo identitario che scaturisce la sua guarigione.  Ancora oggi, in alcuni luoghi dell’Africa, in occasione di feste popolari vengono organizzate danze con ritmi accelerati regolati ad intermittenza come pure troviamo riti simili (condomblè): don Braulio che viene dal Brasile, ci racconta di come, nella sua terra, alla sera i tamburi richiamano chi ha lavorato tutto il giorno nei campi e invitano a ritrovarsi intorno ad una Madre dos Santos che si consacra per guarire la sua gente, invitano alla resistenza. Quelli che vivono quest’esperienza riescono a guarire e vincere il dolore andando in trance, perché questo stato permette di superare la vergogna di essere povero,di essere ‘’schiavo’’che neanche il far parte della Chiesa cattolica ha risolto, poiché la Chiesa appare come una struttura violenta: essa prescrive che cosa bisogna fare per essere bravi fedeli sul modello dei ‘’bianchi’’, ma non dice nulla, non dàsperanza agli impoveriti, i neri, gli indios. È bene nominare la taranta, nominare l’oppressione e ciò che la causa, poiché è quando diamo un nome che denunciamo e ci mettiamo sulla via del senso e della salvezza,cominciamo a liberarci dal veleno.  Le tarantate sono sparite, insieme al mondo agricolo, ma la pizzica è stata riscoperta,dopo un lungo periodo di abbandono, come danza collettiva, come “cura’’per una società che non ha più luoghi, né miti né riti per curare. L’attività di gruppo svolta insieme a Francesco Zecca - che è elaborata proprio intorno al tema della pizzica taranta come danza di liberazione - diventa un momento di intenso coinvolgimento, che riesce a trasformare la sala in luogo dell’accoglienza per l’altro, luogo del non giudizio, in cui nessuno mi giudica e nessuno viene giudicato da me ma in cui io mi prendo cura del dolore dell’altro e lascio che l’altro mi curi. E’ tutto il gruppo che permette alla donna di guarire, oltre che la danza. Il gruppo sostiene il rituale, ci crede, si ferma nella sua attivitàper tutto il tempo necessario al rito, il gruppo si modifica in rapporto al soggetto per farlo guarire.  

Alfredo Melissano.

L’incontro con Alfredo ha mostrato ai nostri amici del nord e del centro Italia quella che è la realtà del nostro territorio. Un paesaggio che colpisce per la sua bellezza ma anche un paesaggio ogni giorno violentato da politiche corrotte e non attente al bene comune con l’uso di tecnologie che vengono utilizzate in maniera del tutto invasiva e pericolosa anche per la salute dei cittadini.  Alfredo ha sottolineato quanto è importante non solo denunciare quelli che sono gli oltraggi al paesaggio e alla salute delle persone, ma anche cercare di trovare soluzioni efficaci analizzando il modo in cui altre realtà, altri Comuni hanno risolto problemi simili: ha citato il caso di Capannori come esempio per la gestione alternativa dei rifiuti e la rete dei Comuni virtuosi e impegnarsi per elaborare soluzioni alternative che aiutino a valorizzare e a mettere in circolo le risorse produttive di cui il Salento dispone, in modo da produrre ricchezza “etica’’che permetta  ai piccoli produttori di sopravvivere e non essere schiacciati dalla grande produzione. 

Viviana Matrangola 

Renata Fonte, una donna giusta:  Viviana Matrangola racconta sua madre,  assassinata per mano mafiosa con tre proiettili in testa, 25 anni fa. Renata Fonte, assessora del comune di Nardò si era battuta contro la lottizzazione e la speculazione edilizia del Parco naturale di Porto Selvaggio. Attraverso i microfoni della piccola emittente locale veicolava la sua lotta per la legalità, la democrazia, la giustizia. Quando è caduta sotto i colpi di pistola dei sicari, aveva 33 anni e due figlie bambine piccole, che l’aspettavano a casa. In realtàlei, come tutte le altre vittime di mafia, non pensava di diventare un’eroina, perché sentiva di fare  solo il suo dovere Questo però fa capire l’ordinarietà di alcune vite che diventano poi vite straordinarie e modelli da seguire. ‘’È in questa luce che, noi figlie, leggiamo la reazione del paese al suo assassinio’’continua Viviana: c’è stata una volontà politica di dimenticarla. Per anni non si è fatto nulla per onorare il suo ricordo, forse perchéricordare una morte così ragica avrebbe significato automaticamente porsi delle domande. Poi crescendo, io e mia sorella, siamo riuscite a rimettere in piedi il suo ricordo, la sua testimonianza. Io, per esempio ho parlato di lei addirittura alle Nazioni Unite, a New York quando ancora a Nardòsi taceva’’.  L’impegno affinché la memoria di questa donna non venisse omertosamente e colpevolmente messa da pare è iniziato nel 1998 e ha messo in moto una macchina incredibile ed inarrestabile. Un gruppo di donne si sono aggregate nell’associazione “Donne Insieme”, nata nel 1998 con l’obiettivo di promuovere la cultura della legalità e della non violenza sul territorio. L’associazione ha creato una rete di collaborazione con la Procura Nazionale Antimafia, la Questura e il Pool Antiviolenza del Tribunale, dando vita alla “Rete Antiviolenza Renata Fonte”, cioè al primo centro antiviolenza, riconosciuto dal Ministero dell’Interno in collaborazione con il Ministero delle Pari Opportunità. Le storie delle vittime di mafia e delle loro famiglie spesso sono storie di solitudine perché accanto alla fine non si ritrovano nessuno. Per questo, per ogni storia riportata alla memoria bisogna sapere che dietro c’è un duro lavoro, frutto anche della fatica di metabolizzare il dolore e a trasformarlo in impegno per gli altri. La lotta alla mafia non si ottiene quando si cattura il boss, perché comunque  già in quel preciso istante è pronto un altro a prenderne il posto, ma quando si tolgono ai boss i loro patrimoni: il simbolo del potere diventa in quel momento il potere del simbolo, come diceva don Tonino Bello.  La società civile è la nuova politica: è questo il messaggio e l’augurio che, in memoria della madre Renata, Viviana ci consegna prima di andare via.

 

Luoghi di potere e di resistenza

La Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina. 

 La visita guidata alla Basilica francescana di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, ad Otranto dichiarato dall’Unesco patrimonio testimone di una cultura di pace (2010) e presso la tomba di don Tonino Bello sono stati momenti comunitari molto importanti che ci hanno permesso di venire a conoscenza dei conflitti che hanno attraversato la storia del nostro territorio così profondamente legato alla fede. La Basilica di Santa Caterina ci ricorda il grandioso processo di latinizzazione del territorio meridionale messo in atto dalla Chiesa e dai normanni già a partire dalla separazione dell’ecclesia in ortodossa e cattolica.  Causata da motivi politici di controllo territoriale, la separazione delle due Chiese in occidentale e orientale inaugurò anche l’avvio del lento ma inesorabile progetto della chiesa latina di appropriazione culturale e territoriale del meridione greco-bizantino. Di così grandi dimensioni da essere considerata da molti seconda solo a quella giottesca di Assisi, la Basilica è il sigillo della ormai definitamente avvenuta commistione tra potere papale e potere politico:chi entra dal portone centrale incontra in primo piano l’immagine del papa dietro cui si erge il Cristo, a sigillarne il potere; il primo nucleo di affreschi dipinge l’Apocalisse,riportando chiaramente l’influenza dell’utopia di Gioacchino da Fiore, che ebbe notevole eco in tutto il meridione e, rimanendo nel tempo profondamente radicata nel pensiero della Chiesa,ha ispirato anche i padri del Concilio Vaticano II. Anche nel ciclo apocalittico è riportato anche il racconto-resoconto della triste condizione della chiesa del tempo: quattro papi con in testa i triregni mentre un angelo afferra le spade che reggono in mano e accanto un pozzo da cui emerge l’anticristo ci ricordano uno dei momenti piùdifficili della storia della chiesa occidentale, quello dello Scisma d’Occidente, periodo in cui il primato petrino era lontanissimo dall’essere riconosciuto,disperso com’era tra le lotte di fazioni e dipendente dai poteri territoriali.
 Otranto 

Siamo arrivati alla domenica e come previsto dal mattino presto ci organizziamo per una visita ad Otranto e ad Alessano. Otranto è per i salentini, il “luogo dei martiri”: per lunghissimo tempo la tradizione ha fatto passare l’episodio del 1480 come conseguenza cruenta della resistenza degli otrantini alla conquista turca. Gli studiosi hanno purificato l’episodio, mettendo in rilievo il fatto che accanto alla pirateria turca c’era anche una pirateria cristiana altrettanto vorace e il “martirio”fu causato dall’abbandono in cui vennero lasciati gli otrantini dal governo spagnolo che in seguito utilizzò l’episodio per scopi propagandistici.  Il Salento è anche zona di numerosissime cripte, retaggio della cultura bizantina e proprio il passaggio da questa alla cultura dei colonizzatori latini è testimoniato anche dalla chiesa di san Pietro ad Otranto, nella quale abbiamo potuto ammirare affreschi risalenti all’epoca della cristianità orientale:in particolare uno raffigura l’Ultima Cena con gli apostoli nella tipica collocazione orientale (Gesù sulla sinistra come capo tavola e man mano i dodici, con il traditore alla fine della fila, in dimensioni notevolmente ridotte rispetto agli altri) e un affresco raffigurante la lavanda dei piedi, con un Pietro che con una mano l’altra fa cenno di diniego, ma con l’altra indica la testa. La chiesetta porta traccia del Concilio di Trento in una statua raffigurante Pietro con accanto il triregno sorretto da un paggio: ad indicare come ormai definitivamente doveva essere inteso il primato petrino.  Percorrendo le stradine del centro storico, arriviamo insieme alla guida alla Cattedrale, eretta dai Normanni che ci riporta ai momenti iniziali del processo di latinizzazione del territorio meridionale: la Chiesa va all’attacco frontale dei ‘’greci’’ utilizzando l’arma politica: i normanni in cambio di investiture si impegnano a portare il sud sotto il controllo del papa e le grandi basiliche sono il sigillo di quest’atto di conquista. Certo, tutto il mosaico pavimentale è attraversato dal conflitto:l ’albero della vita si allarga comprendendo praticamente tutta l’area e in esso vengono a mescolarsi e fondersi elementi biblici ed elementi celtici, portati dagli stessi biondi conquistatori nordici. Otranto proprio grazie ai normanni divenne tanto importante come porto, da essere il passaggio obbligato insieme a Brindisi per chi dall’Europa del nord si recava in terra santa a liberare il santo sepolcro dai saraceni. Nella sua splendida cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088,nel 1095 venne impartita la benedizione ai dodicimila Crociati che, al comando del principe Boemondo I d’Altavilla (1050-1111), partivano per liberare e per proteggere il santo Sepolcro: nel passato della Chiesa spesso luoghi sacri sono stati utilizzati per benedire la violenza e il sangue.

Lasciando Otranto alla volta di Alessano con lo sguardo avvistiamo una grande àncora, lasciata come monumento nel porto: simbolo del potere della collaborazione e dell’unione dei cittadini del paese, che non persero tempo ad organizzarsi per ripulire il mare dai rifiuti tossici riversati negli anni ’70 da un grosso barcone calato a picco al largo. Si legge infatti nella lapide lasciata a ricordo:”All’alba del 14 luglio 1974,al largo di Otranto,la nave Cavtat affondava con centinaia di fusti velenosi. Il pretore Alberto Marirau, sorretto dai cittadini di Otranto e del Salento, appoggiato dai mezzi d’informazione,con l’aiuto dei tecnici della Saipem strappòal mare il carico di morte. L’ancora della Cavtat testimonia che noi uomini possiamo distruggere la vita del mare, ma possiamo scegliere anche un mare vivo, per la vita di tutti. ” 

Alessano 

Recarsi sulla tomba di don Tonino Bello è emozionante, in quest’occasione però si è trattato di un’emozione particolare perché è accaduto dopo una celebrazione eucaristica fortemente sentita ed ecumenicamente  condivisa. Poter pregare nel cimitero affinchè si realizzi in noi e attraverso di noi la profezia di una chiesa in cui possa davvero risplendere la convivialitàdelle differenze e il servizio fatto col grembiule ai fianchi ci ha profondamente coinvolti. Il grembiule come dimensione esistenziale, ci dice Maria Soave, consiste nel decidere autonomamente di de-centrarsi, lasciando  il centro per mettere l’altro al centro: èeducazione alla gratuità, è permanere,trattenersi nell’esperienza,r iuscire ad assaporare quanto io sono importante per Dio e unico ai suoi occhi.  Don Tonino con la sua esperienza ci mostra la strada per diventare discepolo, l’esperienza di chi sceglie di vivere con le mani aperte, con le mani tese e con le mani giunte, affinchè mai accada che un altro accostandosi a noi,ci trovi con i pugni chiusi:è questo vivere con un’ala di riserva, lasciar vivere Dio in noi: lasciar fluire liberamente la vita, lo Spirito in noi.

 

 

 

 

 

 

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